UN VIAGGIO INFERNALE
(MIRATE LA DOTTRINA CHE S’ASCONDE / SOTTO IL VELAME DE LI VERSI STRANI)
di Guido Carretta
Alcuni anni fa, tra gli oltre venticinquemila manoscritti originali conservati negli archivi della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, venne ritrovata una cartella che attrasse la curiosità e l’interesse di letterati e studiosi.
La cartella, in cuoio scuro piuttosto consunto, risalente agli inizi del 1300, porta sulla copertina quattro lettere incise a fuoco: I, N, P e S, e raccoglie al suo interno alcune pergamene manoscritte, attribuite a tale Alighieri Durante, detto Dante, giovane poeta fiorentino, un tempo abbastanza noto, anche se oggigiorno pressoché sconosciuto.
Quei fogli contengono una serie di versi sparsi, apparentemente slegati tra loro, scritti in un italiano un po’ incerto e dal significato piuttosto oscuro.
L’opinione maggiormente condivisa tra gli studiosi, fino a qualche tempo fa, era che si trattasse di una specie di promemoria, una serie di appunti vergati in fretta, che avrebbero dovuto successivamente essere sviluppati in un’opera di più ampio respiro: il racconto di una sorta di “viaggio infernale”, da cui derivava il titolo INPS, verosimilmente l’abbreviazione medievale del termine tardo-latino Inphaernus, ossia Inferno.
Recentemente però, si è fatta strada una nuova e più convincente teoria interpretativa di questi versi che raccoglie attualmente il consenso pressoché unanime della maggior parte degli studiosi e che qui di seguito riportiamo per sottoporla all’attenzione di curiosi ed appassionati (i versi originali del manoscritto, per una miglior comprensione, verranno riportati in corsivo).
Secondo tale nuova interpretazione, il giovane Durante, detto Dante, vuole con tale opera descrivere una faticosa giornata da lui trascorsa, assieme all’amico Virgilio, nella sede centrale dell’INPS di Firenze (ecco spiegate le lettere del titolo), dove il poeta si è recato per avere notizie relative ad una sua domanda di pensione anticipata, essendo egli ancora troppo giovane (Nel mezzo del camin di nostra vita) per quella di anzianità.
All’ingresso Dante chiede informazioni ad un bonario usciere (Caron dimonio con occhi di bragia) incaricato di smistare la moltitudine di visitatori con gesti misurati (Batte col remo qualunque s’adagia) e gentili parole d’incoraggiamento (Lassate ogni speranza voi ch’entrate!).
Il poeta non comprende bene le indicazioni ricevute (I’ credo ch’ei credette ch’io credesse..) e, non sapendo a quale ufficio rivolgersi, chiede consiglio e aiuto ad alcuni presenti, ricevendone però risposte incerte e contrastanti (Per me si va nella città dolente… per me si va ne l’etterno dolore… per me si va tra la perduta gente…).
Dante è disorientato. Spazientito Virgilio gli fa capire che è inutile perdere ulteriore tempo con loro (Non ragioniam di lor, ma guarda e passa).
I due decidono di provare a caso nei diversi uffici. Naturalmente l’ascensore è fuori servizio (Com’è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale).
Aprendo una porta, accidentalmente sorprendono il rag.Ugolino che sta mangiando un toast farcito (La bocca sollevò dal fiero pasto). In un altro ufficio colgono il dott. Malatesta con la sua segretaria, intenti a scambiarsi effusioni amorose (L’amor che move il sole e l’altre stelle).
Dante ne rimane scandalizzato (Non donna di province ma bordello!).
Alla fine, dopo un lungo girovagare, giungono all’ufficio del Direttore Generale, il dott. Farinata degli Uberti (La gloria di colui che tutto move). Lo trovano seduto dietro la sua scrivania (Vedi la’ Farinata che s’è dritto/ dalla cintola in su tutto ‘l vedrai). Farinata sfoglia un grosso registro, legge attentamente, poi comunica a Dante che la sua domanda è stata respinta. Dante vorrebbe sapere il nome del responsabile di quel parere negativo (Colui/ che fece per viltade il gran rifiuto), ed avanza forti dubbi sulla sua dirittura morale (Galeotto fu il libro e chi lo scrisse), ma, seccato, Farinata lo congeda piuttosto sgarbatamente (Vuolsi così, colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare) e si diverte pure a spernacchiarlo (Ed elli avea del cul fatto trombetta).
Il poeta rimane un po’ deluso (Ambo le man per lo dolor mi morsi), e accusa un lieve malore (E caddi, come corpo morto cade).
Quando i due escono dall’edificio è già notte fonda (Et quindi uscimmo, a riveder le stelle).
Dante rimprovera l’amico Virgilio perché gli sembra che questi dimostri scarsa partecipazione al suo dolore (E se non piangi, di che pianger suoli?).
Poi, per consolarsi, se ne vanno fuori a cena in trattoria (Poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno).